Mi piace un sacco guardare i grandi tornei di golf. È uno sport che ha dei punti in comune col biliardo, a cominciare dalla concentrazione assoluta necessaria per non mandare la pallina in un canneto, nella foresta, in acqua… e tenere la linea giusta.
Come nel biliardo ci sono un sacco di scelte tattiche da fare. C’è la tensione nervosa da tenere a bada. C’è la pallina che svirgola proprio sulla buca, un po’ come quando bocci per partita e passi in mezzo senza abbattere i birilli. Rimango ore sul divano a guardare i campioni all’opera sui green, anche perché i commentatori del golf su Sky sono di gran lunga i più bravi a spiegare senza essere ridondanti. Niente a che vedere con gli esaltati che commentano il calcio e gli altri sport.
Dunque dicevo che adoro il golf in tivù e domenica mi sono appassionato alle sorti di Rory McIlroy. Lui adesso è nettamente il più forte di tutti. Non lo dico io ma chi se ne intende. Eppure è tutt’altro che granitico. Cercava l’unico torneo del grande slam che gli mancava e assieme alla sua forza ha mostrato anche le sue debolezze. Esecuzioni perfette alternate a errori marchiani, quasi da principiante. Un’altalena continua.
Quel torneo Rory l’ha vinto perso vinto perso vinto perso un sacco di volte, una buca dopo l’altra. All’ultima buca sembrava fatta, ma ha di nuovo rovinato tutto ed è stato costretto a giocarsi il successo al play off. A quel punto i più lo davano per spacciato, vista la tensione nervosa che lo attanagliava. E invece è arrivata l’unghiata finale del più grande, del fuoriclasse. Rory c’era ancora, non aveva mollato. Credo che stia ancora piangendo per l’emozione e per la gioia.