Alessandro Cavazza è il figlio di Gino, uno dei grandi giocatori bolognesi degli anni 70-80. Ma è anche un collega, giornalista pubblicista. Nella vita realizza film-documentari e tra i suoi progetti ce n’è uno che, il giorno in cui l’avrà realizzato, sarà uno straordinario regalo per tutti noi appassionati di questo gioco. Intanto il regalo Alessandro l’ha fatto al mio blog, con lo splendido articolo-ricordo che pubblico integralmente.
Le vetrate del Paladozza di Bologna mi scorrono sulla destra mentre avanzo felice e col fiatone. E’ il primo pomeriggio e quello per me è un mondo magico davvero. Il privilegio di avere un intero palasport a disposizione mia e di Federico, rispettivamente figli di Gino Cavazza e del grande Trebbi.
La corsa finisce, per ora, ma è solo l’inizio di una di quelle fantastiche maratone, senza orari, sregolate che erano i campionati provinciali di biliardo per noi figli dei giocatori di Bologna negli anni ottanta. Era, quello, quanto di più vicino alla sensazione stravissuta, stralunata, senza tregua, evocata dalla canzone di Vasco Rossi “una splendida giornata”.
Poi per riprendere fiato entravi da uno degli ingressi verso il campo di gioco e sotto di te si apriva il grande ovale del palasport di cui ci sentivamo padroni manco fossimo la Fossa dei Leoni condensata in due “cinni” mentre, di sotto, in un silenzio concentrato intervallato da scrosci di applausi si sentiva solo il frusciare delle sfere sul panno verde, il colpo garbato delle boccette che si avvicinavano al pallino quasi chiedendo scusa per l’ardire o il colpaccio secco da cecchino di un filotto!
Per quel me bambino, i campionati al Paladozza erano un evento non meno atteso del Carnevale o del Natale. Non c’erano costumi né regali e la cena…beh si saltava quasi sempre, però c’era tutto il resto, anzi di più: l’attesa di vedere papà al panno verde, gli amici del bar che scherzavano con noi prendendoci in giro, il “profumo” di linoleum sulle gradinate, il riverbero delle voci, il bar dove si cenava in fretta con dei toast e bibita tra una partita e l’altra mentre mamma era davanti a scherzare con gli altri giocatori o con le altre mogli.
Perché anche le mamme che avevano la costanza, il senso dell’umorismo, “la buccia” per stare in quell’ambiente di omaracci da bar, non erano mica come quelle campionesse dell’aspirapolvere che passavano il giorno a far mettere ai poveri mariti le pattine!
No, anche le nostre mamme erano un’altra cosa!
Tanto che se papà arrivava a ridosso delle finali mica ci portavano a casa a far la nanna. No, era festa ancor più grande perché a questo punto si stava fuori la notte e se andava ancora meglio ecco che il giorno dopo, garantito, si saltava la scuola perché, giustamente, il vincitore (o lo sconfitto all’ultimo momento) poi voleva andare a mangiare qualcosa con i compagni di squadra. Quindi, dove sembrava finita la festa, in realtà ricominciava, così fino all’alba che accoglievi dormendo, scomposto e devastato, sul sedile posteriore dell’automobile.
Questo per me era il mondo del biliardo. Una serie di momenti e personaggi ingigantiti forse dalla abilità di mio padre nel raccontarmi le sue epiche da bar o anche solo dal fatto di essere un marmocchio che arrivava poco sopra il tavolo da biliardo.
Ma c’era una atmosfera di emozione in quelle gare che forse si fondeva col risveglio della primavera e con tutta la vita che pompava dentro di me preparandomi per la inquietudine benedetta della adolescenza ancora di là da venire. Fatto sta che nelle maratone biliardistiche del palasport si cristallizzava un mondo sempre affascinante, sempre emozionante, sempre divertente che aveva in un pallino blu che “ruzzola” su un manto verde sintetico il proprio centro.
Il mondo del biliardo visto dal basso del mio metro e venti è stata una palestra di differenziazione rispetto a direi tutti i miei compagni di scuola e amici dato che frequentavo con mio padre i bar e la notte quando gli altri dormivano nel loro lettino.
Sì c’era il fumo che certo non mi faceva bene, e volavano bestemmie, altroché, però fioccavano le caramelle e le cioccolate dispensatemi dai baristi sempre generosi mentre io dicevo “segna sul conto del babbo” manco fossi un Alain Delon in miniatura. Ma avete idea di cosa significhi per un bambino vivere la propria infanzia tra il cortile e un bar fumoso come il Manzoni dei primi anni ottanta?
Non sapevo che quella fosse una sorta di cattedrale tanto del miglior biliardo d’Italia quanto del gioco d’azzardo e il passo verso la bisca, diciamocelo con franchezza, era ben breve. Ma c’erano tutti gli amici di papà, dal grande musicista classico apprezzato in tutto il mondo al traffichino e tutti mi volevano bene, e, soprattutto, poco più in la anche il celebre negozio di modellismo 94° Squadrone (che resiste eroicamente) dove prendevo i soldatini con cui giocavo su di un tavolo mentre poco più in là altri giocavano sì, ma di soldi e alcuni pure truffavano.
Era quello il mondo per come è davvero: affascinante e innocuo se lo conosci, imbarazzante e discutibilissimo se te lo fai raccontare da chi non ha mai messo il naso fuori dal proprio ufficio e mi fa venire in mente la storia che racconta spesso il cantautore Bobo Rondelli nella quale sua madre gli dice con rimprovero “cosa vai fuori di notte che ci sono solo ladri e puttane” e lui risponde “appunto mamma, ora esco!”. Io so esattamente cosa intende dire il buon Bobo.
Oggi, di quei volti del Manzoni, ne ricordo ben pochi ma due in particolare mi sono impressi nella memoria: il cameriere cinese che tutti chiamavano ovviamente Chen essendo in pieno periodo Bruce Lee e il grande Checco Fava, un giocatore che per me era un poco uno zio dato che per un periodo ha pure vissuto a casa di mia nonna e abbiamo cercato di farlo fidanzare con la Clara, la mia maestra delle elementari.
Poi va beh sono cresciuto, le cose cambiano, non c’era più l’appuntamento del palasport, non per me perlomeno. Il Manzoni ha chiuso mentre io, come è giusto che sia, ho incominciato ad interessarmi ad altro, alle ragazze e alla musica e poi a tutto il resto che contribuisce un po’ a riempire e un po’ a svuotare la vita di un ragazzo.
Fin verso i trent’anni quando, per caso, mi son trovato a suonare in un locale: era l’ex bar Manzoni ma non c’era più nulla di quel luogo. Tutto si era trasformato ma poco male…sapevo che su quei muri, in profondità quasi fosse un castello medievale pregno di secoli, rimanevano gli improperi, le risate, i colpi di boccette o il frusciare delle carte da poker in un controcanto di tazzine di caffè e odore di strinato dei panini riscaldati alla piastra con cui a volte facevo cena e poco più in là il mio babbo, sempre sorridente e in compagnia..
E fuori Bologna, l’Emilia poi la nebbia.
Alessandro Cavazza
Papa’Gino ti a mai raccontato dei DOG lui era il cantante e abitava in via Fioravanti dietro la chiesa dell’arcoveggio.
Oltre a Gino suonava Palmiro Tagliatti,Tolomelli Mauro,purtroppo del quarto musicista al momento non ricordo
il nome.
Bei tempi tutti in bianco e nero,io ero molto amico di Gino, eravamo alla stessa scuola “Grosso” in via Erbosa e abitavamo molto vicini…il suo vicino più vicino era “BOBET”
Grandi Roberto.
Ci sarebbe tanto da raccontare,qualora vi potesse interessare il resto su Gino sono a disposizione.