A Imola andavamo da Marino. In realtà il locale si chiamava Las Vegas ed era una sala in via Appia. Del resto nemmeno il titolare si chiamava Marino, ma Graziello. Erano gli anni Settanta. Si diceva che Graziello Carmonini, per tutti Marino, avesse gestito a lungo un ristorante-pizzeria al mare, se la memoria non m’inganna a Cattolica. Poi aveva aperto quella sala biliardi nella sua città.
Un breve corridoio introduceva alla cassa, dove trovavi, instancabile e immancabile da mattina a sera, la moglie Anna. Oltre la cassa, si entrava in una grande sala, adesso, curiosamente, non riesco a ricordare se con 5 o 7 biliardi da boccette, tutti lunghi 2 metri e 60 come usava a quei tempi, ovviamente con le buche. Ce n’era anche uno da stecca, forse messo lì giusto per accontentare quegli “eccentrici” personaggi che non giocavano, come tutti noi, solo con le mani. In fondo un altro piccolo corridoio disposto in orizzontale, con la luccicante fila dei flipper.
Marino arrivava ogni tanto di sera. Era un tipo burbero, uno di poche ma spesso taglienti parole. Dopo la pizzeria si era dato all’arte. Nel senso che commerciava in quadri e sculture. Ricordo che un giorno, quando ormai ero entrato nelle sue grazie, mi parlò con grande fervore di una preziosissima opera di Burri. Io annuii mostrandomi molto impressionato, ma l’unica cosa che sapevo con certezza in quel momento era che Burri non era un centrocampista della Spal.
Dunque Marino arrivava di sera. E diceva “Anna apri il 5”. In posizione centrale, strategica, il 5 era il suo biliardo preferito, con le panche per gli spettatori su tre lati del rettangolo di gioco. Quando c’era Marino nessuno si azzardava a chiedere il 5. E se qualcuno ci stava giocando, appena lo vedeva arrivare si affrettava a finire la partita. Chissà se aveva scelto quel biliardo anche per le caratteristiche particolari. Lui, mancino, era leggermente avvantaggiato da quelle sponde e da quel panno verde che tagliavano benissimo da sinistra, accompagnando dolcemente il pallino verso il filotto. Non così da destra, dove le traiettorie erano più incerte anche quando colpivi perfettamente il boccino blu. Ma forse no, Marino non era tipo da mezzucci, non cercava vantaggi.
Era senza dubbio un giocatore di una certa classe. Non un gran filottista, ma molto bravo a punto (adesso si dice in accosto) e nei tiri, implacabile soprattutto in quelli da sotto. Con le regole attuali, che premiano oltremisura i calci, avrebbe avuto un successo notevole. Non faceva gare e non giocava quasi mai in campionato. Dicevano che era troppo emotivo. Ma gli piaceva affrontare i più bravi, anche quando lo facevano perdere. Anzi, era lui che invitando i giovani emergenti della sala a giocare sul biliardo 5, sanciva ufficialmente il loro ingresso nell’élite del Las Vegas. La sua frase classica era “Facciamo due 51 e la bella se viene”. Non era una domanda ma un’imposizione. Nessuno si azzardava a dire di no e se quella sera avevi un appuntamento con la morosa, trovavi il modo di avvisarla: c’era stato un imprevisto.
La prima volta che Marino mi disse facciamo due 51 e la bella, quasi non credevo che si fosse rivolto a me. Avrò avuto sì e no 18 anni ed ero senza morosa per cui non dovevo avvisare nessuno. Ricordo che giocai con una certa tensione. Tutto il resto è nella nebbia, compreso il risultato. Ma il dado era tratto: avevo giocato con Marino sul 5, ero entrato nella cerchia degli eletti e non ne sarei più uscito. Dopo quella sera ce ne furono altre. Giocammo diverse partite, sempre con un certo numero di persone sedute a guardare e pronte ad annuire ai tiri più arditi e spettacolari. Le sfide si allungavano. I due 51 diventavano quattro, a volte anche di più. Fino a che, quando ormai era passata mezzanotte, Marino si rivolgeva ai pochi eroi rimasti attorno al biliardo e pronunciava un’altra frase che non ammetteva repliche: “Adesso chiudiamo e andiamo a casa mia a farci due spaghetti”. Ovviamente toccava ancora ad Anna, un po’ assonnata ma sempre disponibile, apparecchiare e buttare giù la pasta. Quanto al vino di qualità, a casa di Marino non mancava mai.
Il Las Vegas è stato una scuola, una palestra per tanti giocatori imolesi di biliardo. Non ha mai avuto squadre fortissime proprio perché era più che altro un vivaio, un punto di partenza. Quando avevi raggiunto un certo livello, venivano a cercarti, per proporti di giocare magari al Ronchini, o alla Nuova, o in una delle altre squadre che in quegli anni lottavano per vincere il campionato. La maggior parte si trasferì quasi di fronte, un po’ più verso il centro, al circolo Moto Club dove andai anch’io. Ma questa è un’altra storia.
Sul Las Vegas ho un piccolo aneddoto; era il 1971 forse 1972 e per la prima volta venne organizzata una gara interprovinciale ad Imola.
Era l’occasione per vedere in azione quei giocatori di cui si sentivano solo cantare le gesta.
Ebbene io quella gara la vinsi e in finale contro Tassi Bruno detto il leone, la partita finì 75 a 17 a mio favore e decretò che ci sarei stato pure io in mezzo a quelli che consideravo alla stregua delle figurine dei calciatori.
Tassi, altro grande campione delle boccette. Lui è uno di quelli del Manzoni a cui vorrei dedicare qualche capitolo del blog. Mi vengono in mente Fava, Piazzi, Casini, Cavazza, Lambertini e tanti altri. Poi mi ricordo Reatti. Giocatore più portato per le sfide testa a testa che per gare o tornei. L’anno in cui si giocarono gli Italiani alla Volta, non ricordo l’anno esatto, quando tu perdesti solo in finale con Piazzi (Trinca fuori nei quarti di finale, io eliminato per entrare nei 16) se non sbaglio ricordo una sfida durissima fino a notte fonda tra te e Reatti, caro Luca, all’ex Bar Sganaplino. Ecco, ma per parlare con cognizione di causa del Manzoni mi servirebbe l’aiuto di qualche bolognese. Vedremo se salterà fuori.
grazie, queste storie sono belle ed emozionanti, il nostro gioco, i grandi personaggi che ne hanno fatto parte, i bar degli anni 70-80, la vita era più semplice, le persone più genuine e ci si aiutava di più.
Grazie a te.